05 Lug La rinuncia del lavoratore ai propri diritti contenuta in un atto transattivo è sempre valida ed efficace?
La risposta è no.
E’ quanto ribadito dalla Suprema Corte con ordinanza n. 20518/19 laddove afferma che un accordo transattivo, sottoscritto ai sensi e per gli effetti dell’art. 2113 c.c. è nullo, per indeterminatezza dell’oggetto, quando, relativamente ad esso, la formula adoperata è del tutto generica e tale, dunque, da non consentire al Lavoratore di esprimere una volontà che presupponga una rappresentazione esatta dei medesimi.
Come noto, infatti, in materia di atti abdicativi di diritti del lavoratore subordinato, le rinunce e le transazioni aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro previsti da disposizioni inderogabili di legge o di contratti collettivi, contenute in verbali di conciliazione conclusi in sede sindacale, non sono impugnabili, a condizione che l’assistenza prestata dai rappresentanti sindacali sia stata effettiva, così da porre il lavoratore in condizione di sapere a quale diritto rinunci e in quale misura, nonché, nel caso di transazione, a condizione che dall’atto stesso si evincano la questione controversa oggetto della lite e le reciproche concessioni in cui si risolve il contratto transattivo ai sensi dell’art. 1965 cod. civ. (cfr. sul punto Cass. 23 ottobre 2013, n. 24024).
Dalla scrittura contenente la transazione devono, infatti, risultare gli elementi essenziali del negozio e, quindi, la comune volontà delle parti di comporre una controversia in atto o prevista, la res dubia, vale a dire la materia oggetto delle contrastanti pretese giuridiche delle parti, nonchè il nuovo regolamento di interessi, che, mediante le reciproche concessioni, viene a sostituirsi a quello precedente cui si riconnetteva la lite o il pericolo di lite.
L’oggetto del negozio transattivo va, quindi, identificato non in relazione alle espressioni letterali usate dalle parti, non essendo necessaria una puntuale specificazione delle contrapposte pretese, bensì in relazione all’oggettiva situazione di contrasto che le parti stesse hanno inteso comporre attraverso reciproche concessioni, giacchè la transazione — quale strumento negoziale di prevenzione di una lite — è destinata, analogamente alla sentenza, a coprire il dedotto ed il deducible.
A mente poi della nozione di transazione ex art. 1965 c.c., quale atto negoziale con il quale i soggetti interessati non solo possono prevenire una lite potenziale, ma anche porre fine ad una lite già incominciata, la Suprema Corte già con sentenza n. 1185/85 ebbe modo di precisare ulteriormente che ove il lavoratore in sede di conciliazione giudiziale abbia manifestato il proprio consenso alla risoluzione del rapporto di lavoro, l’efficacia transattiva dell’accordo raggiunto non può che essere riferita, in mancanza di specifiche limitazioni, a tutti i diritti scaturenti dal rapporto che risultino obiettivamente determinabili.
Nel caso in esame gli Ermellini ritenendo corretta la decisione impugnata, hanno rigettato il ricorso proposto dal datore di lavoro, osservando che l’accordo transattivo era da considerarsi valido ed efficace relativamente all’indennità di ferie maturate e non godute, dove vi era stata una espressa e puntuale rinuncia da parte del lavoratore e che il suddetto accordo non era stato impugnato nel termine di sei mesi previsto dall’art. 2113 del codice civile, mentre era da considerarsi nullo per ‘indeterminatezza dell’oggetto’ nella parte in cui faceva genericamente riferimento agli altri diritti derivanti dal rapporto di lavoro intercorso, in quanto con la transazione era stata adottata una formula del tutto generica e, pertanto, non idonea da consentire al lavoratore di esprimere una volontà che presupponesse una rappresentazione esatta dei suddetti diritti.
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